Federico Baccolini – parrucchiere

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Come/perché hai deciso di dedicarti a questo mestiere?

Ho iniziato a fare questo lavoro perché ho sempre adorato i capelli, le acconciature, la moda e i vari stili. Fin da piccolo ero attirato dalle pettinature delle attrici, soprattutto quelle del passato e ho cominciato a sperimentare ed esercitare la mia passione sulle Barbie di mia sorella, continuando con le donne della mia famiglia, per poi essere “scoperto” dalla parrucchiera di mia madre, che poi è diventata la mia titolare quando avevo 26 anni.

Quali sono le piccole soddisfazioni che riesce a darti?

Nonostante sia molto duro e in un certo senso alienante, è un mestiere che offre tante soddisfazioni. Avendo a che fare con una delle cose più preziose che possiedono le donne e che va costantemente esibita, ogni minimo particolare non gradito diventa un grossissimo problema e, viceversa, ogni buon lavoro diventa un successo. Conquistare la fiducia di una cliente ed essere il suo parrucchiere di riferimento è una grandissima soddisfazione.

Quali sono gli odori che caratterizzano il tuo mestiere? Quali i colori?

Amo tantissimo il mio lavoro perché è molto profumato. Anche se ora, forse, non me ne rendo nemmeno conto perché il mio naso ormai si è abituato. Dove lavoro c’è la fragranza delle lacche,  quella degli shampoo, delle maschere per capelli. Odori invitanti e ricercati.

I colori sono quelli dei capelli, naturalmente, e vanno dal bianco al nero, dal biondo al bruno.

Cosa non deve mancare nella tua “cassetta degli attrezzi”?

Non mancano mai le mie amatissime forbici, le varie mollette e forcine, il phon, la mia inseparabile lacca, le spazzole, elastici per capelli e il babyliss.

Quali sono le persone che ti permette di incontrare/conoscere? Ce n’è una che ricordi in particolare? 

Ne incontro di ogni tipo, dalla donna in carriera a quella in corriera, dalla studentessa alla pensionata. Ne ho incontrate anche di spiacevoli, ma altre interessanti e di cuore. Alcune di queste sono diventate amiche. Una persona che ricordo con affetto è Derna, di 100 anni. Una signora elegantissima con un gusto insuperabile. Mi ha raccontato aneddoti della sua  vita avventurosa. Ricordo che prima di diventare suo parrucchiere la vedevo passare dalla vetrina del negozio e già desideravo farle i capelli. Indossava sempre delle mise stupende.

Un episodio in cui hai pensato “chi me lo ha fatto fare?”

Lo penso ogni volta che mi trovo a che fare con clienti molto esigenti, che non capiscono che noi parrucchieri non facciamo miracoli e che desiderano fortemente ottenere effetti che non potranno mai essere ottenuti. Ci sono clienti che si presentano con il classico “santino”, ovvero la foto dell’acconciatura che vorrebbero che noi facessimo. Peccato che il più delle volte queste foto non rispecchino come veramente vogliano i capelli, ma solo il tipo di donna che vorrebbero essere, scambiando noi parrucchieri per luminari della chirurgia estetica!

Ci sono donne, poi, che portano foto di capelli alla Sharon Stone, cortissimi, ma che non vogliono tagliarli oltre le spalle; donne che portano foto in bianco e nero e che vorrebbero proprio quella sfumatura di biondo che neppure loro riescono a vedere.

Il momento della giornata lavorativa che ti godi di più.

Amo quei momenti in cui arrivano le mie clienti affezionate, quelle che si fidano dei miei consigli e che mi seguono, apprezzando quello che faccio perché ci incontriamo sulla stessa lunghezza d’onda.

In due parole come definiresti il tuo mestiere.

Qualcosa che devi avere nel DNA.

Un consiglio a chi vuole fare questo mestiere.  

Il mio consiglio a chi vuole intraprendere questa strada è soprattutto di pensare fortemente a quello che comporta questo lavoro: è un lavoro di forti soddisfazioni ma tanto stancante, per i ritmi intensi e le tantissime ore passate in piedi. Purtroppo in questo ambito la maggior parte dei datori di lavoro, essendo per lo più privati, approfittano dei dipendenti, magari non pagando gli straordinari pur costringendoli a farne.

Consiglio fortemente di studiare tanto e di cercare di farsi una cultura generale prima di frequentare una scuola professionale. Ritengo che molto spesso, nel mio ambito, ci siano persone, anche meravigliose, che hanno trascurato lo studio e questo le svilisce.

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Marco Mezzetti – scrittore, comico e attore

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Come/perché hai deciso di dedicarti a questo mestiere?

Non è stata una scelta, è stata un’inclinazione, una conseguenza inevitabile. L’arte mi è entrata dentro fin da piccolo. Scrivevo poesie già alle elementari e forse prima. Non si sceglie di diventare un artista. Si nasce artisti. Al limite si sceglie di vivere di quello, d’altro o di entrambi. Ma essere artisti ed esprimerlo con opere pubbliche è un tutt’uno con la nostra personalità. I veri artisti lo sono sempre. Lo sono e lo vivono. E il loro lavoro sfuma i confini del loro essere.

Quali sono le piccole soddisfazioni che riesce a darti?

Ogni volta che porto a termine un lavoro con profitto è una soddisfazione. Che abbia risalto pubblico o meno, non importa. Proprio perché già soddisfa me stesso non è sempre indispensabile il riconoscimento pubblico. Tutto parte dalla mia felicità. Dopo viene quella dall’ambiente in cui vivo e opero. E di conseguenza anche le soddisfazioni economiche. Quindi a volte ho piccole soddisfazioni, a volte grandi. E a volte non ne ho, questo lavoro può essere molto altalenante. Non tutti i periodi sono buoni, non tutto va bene, a volte si sbaglia. Però sempre si cresce. Che tu lo voglia o no, indietro non torni mai.

Quali sono gli odori che caratterizzano il tuo mestiere? Quali i colori?

Gli odori sono quelli della fatica, del sudore, dell’ascella libera e vagante soprattutto quando al termine di uno spettacolo o una serata cadi esausto prima della doccia. Però ne hai anche di più gradevoli, il profumo delle signore a teatro, degli abiti di scena usciti dalla lavasecco, della cena che precede uno spettacolo. I colori sono quelli del trucco, della notte passata in giro a lavorare, dei locali e anche della gomma. Sì, della gomma tagliata prima di ripartire per tornare che ti costringe a chiamare un carro attrezzi perché il tuo socio ha scelto di lasciare a casa quella di scorta per farci stare il materiale di lavoro. Negli ultimi tempi ho anche a che fare con gli odori e colori della mia compagna di lavoro, l’attrice e modella Martina Sacchetti e i suoi scatti fotografici. La prendo un po’ in giro per questo.

Cosa non deve mancare nella tua “cassetta degli attrezzi”?

Con me deve sempre venire, oltre ai materiali e abiti per lo spettacolo, quella sana fibrillazione e agitazione che fa sì che non sei mai rilassato quando sei in scena. Perché essere tranquilli è fondamentale ma anche non addormentarsi lo è altrettanto.

Quali sono le persone che ti permette di incontrare/conoscere? Ce n’è una che ricordi in particolare?

In questo lavoro incontro artisti di ogni genere, persone con cui finirò per fare qualcosa ma anche artisti che lavorano i campi diversissimi dal mio. Ricorderò sempre con piacere Nicoletta Mantovani. Lei è anche produttrice cinematografica e io e il mio ex socio la incontrammo un paio di volte per lavoro. Gentile e disponibile. Ci scambiamo ancora gli auguri durante le festività. Chissà, magari, un giorno… In generale i Gemelli Ruggeri sono tra quelli che apprezzo di più. Bravissimi e modesti, mi hanno onorato più volte della loro presenza durante i miei eventi. Due bravissime persone e due amici. Inimitabili.

Un episodio in cui hai pensato “chi me lo ha fatto fare?”

Vengo invitato da un salotto letterario di Modena a presentare il mio libro. Nei mesi che precedono l’appuntamento scopro errori di orario sulle mail, sulle brochures, errori riguardanti il giorno dell’appuntamento e nel testo diffuso per pubblicizzare l’evento, il mio nome che non compare mai ma quello dei miei ospiti sì. Un incubo. Nonostante la corsa alla correzione fatta dall’organizzazione (o meglio disorganizzazione), la serata è un flop completo e la rimando prima di iniziarla. Naturalmente non ho più voluto organizzare nulla lì.

Il momento della giornata lavorativa che ti godi di più.

Le pause durante le prove e le cene con gli amici o altri attori a fine spettacolo. Il massimo del relax. Prima è solo concentrazione, tensione e palpitazioni varie.

In due parole come definiresti il tuo mestiere?

Bello e dannato, come me (la modestia mi ha sempre contraddistinto). Anche se riferito a me preferisco “bello e d’annata”, visto che ho passato i 40.

Un consiglio a chi vuole fare questo mestiere.

Il consiglio migliore che potrei dare è quello di non farlo. C’è già troppa concorrenza così. Grazie.

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Susanna Fiorini – artista

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Come/perché hai deciso di dedicarti a questo mestiere?

Incoraggiata da una mamma speciale che creava vortici magici con tutto quello che toccava, non avrei potuto fare diversamente. Mi ricordo come restavo ipnotizzata da quelle mani curate con le unghie laccate che cucivano paillettes, trasformavano le mie scarpe incollandoci dei coriandoli per la festa di carnevale; confezionavano vestitini meravigliosi e un po’ strambi per me e mia sorella; realizzavano enormi fiori colorati di carta crespa. Ogni occasione era buona per fare festa. Da piccola preferivo disegnare, creare oggetti utilizzando i materiali più svariati piuttosto che giocare con le bambole che trovavo molto noiose. Ero sempre attorniata da fogli da riempire, giornali da ritagliare, brillantini e stoffe da appiccicare. Avevo una vecchia scatola di latta decorata dove nascondere i miei tesori: un sasso luccicante raccolto dopo un temporale, un pezzetto di vetro rosso, carta stagnola colorata, una cartolina con l’immagine che si muoveva, un ritaglio di velluto nero, qualche conchiglia e un anellino con un corallo.   I miei sensi erano costantemente stimolati. Credo che la scelta di fare questo mestiere sia dipesa dal desiderio di continuare ad abitare l’infanzia felice di quel mondo magico.

Quali sono le piccole soddisfazioni che riesce a darti? 

Succede ogni volta che qualcuno apprezza sinceramente un mio lavoro. O che si emoziona. O che si identifica nel soggetto di una tela, sentendola sua. Ogni volta che alle mostre o in atelier mi accorgo di un bagliore che passa fulmineo negli occhi di una persona o si accende un sorriso. E ancora quando, tenendo i corsi di pittura di base, vedo l’eccitazione delle persone che apprendono come dipingere un cespuglio o una nuvola. La sensazione meravigliosa di aver imparato una cosa nuova. Ecco, queste, tra tante altre, sono le mie piccole (grandi) soddisfazioni.

Quali sono gli odori che caratterizzano il tuo mestiere? Quali i colori? 

Gli odori sono indubbiamente le essenze di cui mi circondo quando lavoro; non posso farne a meno. Amo molto gli incensi e le resine. Mi aiutano a distaccarmi dalla realtà. A volte un’idea per un nuovo lavoro nasce proprio fissando le ipnotiche volute di fumo dolciastro dei grani aromatici che si sciolgono s sul carboncino. Ambra, benzoino, Patchouli, olibano. Profumi intensi che evocano luoghi e momenti di altre vite. Poi i colori, i colori ci sono tutti, e sono sempre intorno a me, a portata di mano anche se in questo periodo utilizzo principalmente, nei miei lavori, il bianco e il nero, l’oro in foglia, l’argento e il rame brunito. Ma quelli davvero indispensabili per me sono il verde nel quale è immerso l’atelier, e l’insieme delle sfumature del cielo e della campagna circostante che cambiano con l’avvicendarsi delle stagioni.

Cosa non deve mancare nella tua “cassetta degli attrezzi”?

Non devono mancare le cose inutili. Le cianfrusaglie. Le cose che luccicano. I piccoli oggetti che trovo ai mercatini e che accumulo da anni. Curiosità che trovo in giro e attirano la mia attenzione. Quando qualcosa mi fa battere il cuore, lo porto nel nido, proprio come una gazza ladra. E questi oggetti sono molto importanti per il mio lavoro. A volte una tela è caratterizzata da un dettaglio, una piccola cosa che applico e fa da tramite. Da messaggio, fra me e il fruitore dell’opera.

Quali sono le persone che ti permette di incontrare/conoscere? Ce n’è una che ricordi in particolare?  

Nonostante siano ormai quasi trent’anni che svolgo questa professione, mi ricordo di ogni persona che ha acquistato una mia opera, o per la quale ne ho realizzata una. Ed è bellissimo rivederle alle mie mostre. E naturalmente conoscerne sempre di nuove. Di certo non posso dimenticare però l’incontro con Roberto Re, formatore e coach motivazionale. Dovevo partecipare a una collettiva dal tema “trasforma il libro che ti ha colpito di più in un oggetto d’arte“. Era l’anno 2007. Appassionata da sempre di argomenti affini alla crescita personale, avevo appena finito di leggere ‘Leader di te stesso’, di Roberto Re, appunto, e lo trovai davvero molto potente. Mi permise di considerare alcune cose da una prospettiva nuova. Così lo trasformai in una porta. Applicai una vecchia maniglia di ottone alla copertina, la completai con piccole tessere di mosaico di specchio. La porta che si apriva su meraviglie mai viste prima. Glielo feci sapere e venne alla galleria dove era esposta. Fu davvero inaspettato e molto emozionante passare un paio d’ore con una persona speciale, piena di energia positiva, trascinante e indimenticabile come il suo libro.

Un episodio in cui hai pensato “chi me lo ha fatto fare?” 

Una volta un cliente mi commissionò un lavoro molto particolare, pieno di simboli nascosti ed effetti ottici. Lavorammo insieme al progetto del quadro che doveva riprodurre un paesaggio con un castello visto da una finestra, effetto . Mi disse che questo paesaggio doveva avere la luce solare delle 19 di un giorno di giugno. Perplessa, ma tenace, non mi feci molte domande, ma quella volta, sì, sommersa da bozzetti e prove colore, foto e video, ricordo di aver pensato ‘chi me lo ha fatto fare’. Però riuscii ad accontentarlo, tanto che nel tempo ha acquistato altri miei lavori, e molti di quelli che mi ha commissionato li abbiamo realizzati in team, a quattro mani. E siamo diventati molto amici.

Il momento della giornata lavorativa che ti godi di più.

La sera. Adoro la sera, per me è il momento magico. Quando tutto un po’ si sfuma tutto è più gentile e profondo. Amo il mistero delle luci che si raccolgono intorno al mio lavoro. A volte con la compagnia di qualche candela. L’ambiente assume conformazioni indefinite, diviene liquido, dove posso immergermi completamente. In compagnia dei miei pensieri posso creare, libera e senza distrazioni.

In due parole come definiresti il tuo mestiere? 

Un costante equilibrio fra realtà e sogno.

Un consiglio a chi vuole fare questo mestiere.

Fatelo, fatelo e basta! Inseguite il sogno. Afferratelo e rendetelo reale. Ma solo se siete disposti a rinunciare alla sicurezza e alla comodità di altre professioni, alla tranquillità della routine. La libertà ha un costo, a volte alto. Solo se siete disposti a vivere di passione, di emozione, così come diceva D’Annunzio, ”Vivere ardendo e non bruciarsi mai”.

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Qui il sito di Susanna Fiorini.

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Franco Roselli – autore di Blob (Rai3), regista, scrittore

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Come/perché hai deciso di dedicarti a questo mestiere?

Il mio arrivo a Blob, nel 1996, avveniva dopo aver lavorato, alcuni anni come regista, nelle altre reti  Rai. Ho lavorato per Raffaella Carrà, Giancarlo Magalli, Luciano Rispoli e molti altri. Stanco di girare da una redazione all’altra ebbi un colloquio con Enrico Ghezzi, il creatore di Blob. Fu un’intervista quasi irreale ma alla fine entrai nel gruppo redazionale della trasmissione.

Fu un incontro verso sera, prima della chiusura degli uffici alla sede Rai di Viale Mazzini. Entrare nell’ufficio di Ghezzi era come entrare in una dimensione ben rappresentata dai pittori surrealisti. Enormi quantità di libri sparsi ovunque, videocassette poggiate sulle sedie. A malapena trovai un posto dove sedermi. Lui parlava a bassa voce, mentre lanciava contro la parete una pallina da tennis che riprendeva in mano con un veloce scatto. Ho dovuto chiedere più volte che mi ripetesse la domanda, poi prendeva un brandello di una mia risposta e incominciava a sviluppare ragionamenti e concetti che cercavo di capire. Timido, riservato, mi guardò come fossi uscito da sotto una pila dei libri della stanza, sorrise lievemente, e mi diede il benvenuto nel suo gruppo di lavoro. Ciò che aveva colpito il creatore di Blob era il mio passato di ghost writer in giro per l’Europa. Avevo lavorato come ghost writer per Rainer Werner Fassbinder, François Truffaut, Valerio Zurlini. E in effetti, la conoscenza della scrittura per il cinema e quella per il teatro mi furono di grande aiuto fin dall’inizio.

Guardare montagne di filmati, selezionare immagini e poi spendere intere giornate, fino a notte tarda, davanti al televisore a guardare tutto, dai telegiornali ai talk, annunci commerciali inclusi, per poi scegliere con una folle connessione, vari frammenti e montarli assieme cercando di dare un senso: tutto questo è il mio lavoro.

Quali sono le piccole soddisfazioni che riesce a darti? 

Per tanti anni, il mio lavoro è stato quello di scrivere storie, dialoghi per il teatro e per il cinema, inventare emozioni, sorprese, amori improbabili. Molta parte di ciò che scrivevo nasceva dalla mia grande memoria. Ascoltavo a ogni incontro, studiavo da vicino il regista, l’attore, il musicista, le loro emozioni, le manie, le storie strampalate, le tragedie, le passioni travolgenti, i fallimenti e le vittorie insperate. Registravo tutto gelosamente. Il mio cuore e la mia mente se ne prendevano cura, ed ero sempre pronto a usare nel momento richiesto, brandelli di un passato altrui. A forza di scrivere per gli altri, degli altri, al posto di altri, è nato in me il desiderio di ordinare con un metodo emotivo, guidato dal cuore e dalla fantasia, tutto ciò che avevo scritto, sentito, spiato, origliato, letto e riletto, e trasformarlo in un’unica storia. Ed è così che ho iniziato a scrivere il romanzo UN BUDDHA IN GIARDINO, con grande gioia. È bastato aprire i miei ricordi rinchiusi e ordinarli. Quando, però, dopo un anno e mezzo di metodico lavoro quotidiano di scrittura ho terminato il romanzo, mi sono accorto che, per scrivere un’intera saga, quella della famiglia Crosby, era stata sufficiente solo una piccola parte di ciò che negli anni avevo appreso.

Quali sono gli odori che caratterizzano il tuo mestiere? Quali i colori? 

Non amo gli odori forti, ma ricordo con tenerezza il profumo del caffè caldo nelle prime luci  mattutine sui set dei film in cui ho lavorato; l’odore pungente della birra versata sulla canottiera di Fassbinder; il leggero profumo di lillà che emanava il golfino di Fanny Ardant sul set del film di Truffaut.

Adesso convivo con l’odore aspro della sigaretta di un mio collega di Blob, quando alla mattina ci troviamo in sala di montaggio per preparare la puntata della trasmissione.

Cosa non deve mancare nella tua “cassetta degli attrezzi”?

Lavorare per Blob richiede una pazienza e una costanza assidue. Nulla di ciò che avviene dentro quella scatola che emette suoni e immagini può essere tralasciato, ti trasformi in una memoria visiva ambulante. Il giorno prima del montaggio mi siedo davanti al televisore armato di quaderno per gli appunti e telecomando e inizio a guardare…tutto! Riempio pagine e pagine di segnalazioni con l’indicazione del programma, del canale, dell’ora esatta e del momento che ritengo importante da indicare e riproporre al montaggio.

Quali sono le persone che ti permette di incontrare/conoscere? Ce n’è una che ricordi in particolare?  

Montare Blob è una grande gioia per me anche se porta qualche grana. Spesso sono arrivate diffide e denunce da personaggi televisivi e non, vittime dei nostri crudeli montaggi. Altri personaggi del mondo dello spettacolo e della politica, invece, hanno iniziato a divertirsi scoprendo che le nostre implacabili segnalazioni danno loro maggiore notorietà e quindi sono loro stessi a chiamare la redazione o inviare fax per segnalare con estrema precisione le situazioni strane da loro vissute in tv. Personalmente sono crudele, se l’indicazione appare finta, ruffiana, non la prendo nemmeno in considerazione.

Un episodio in cui hai pensato “chi me lo ha fatto fare?” 

Sì, ci sono stati dei momenti in cui ho sentito la pesantezza del mio lavoro. Non era facile riproporre le immagini colme di sgomento dell’undici settembre con gli aerei che si schiantavano sulle torri gemelle. Che dolore e nausea per le ripetute notizie delle continue violenze sulle donne e sugli omosessuali. Che rabbia per le morti senza senso dei migranti nel mare mediterraneo, e…che palle! le continue e ripetute frasi in politichese e la banalità dei tuttologi in televisione. Sanno sempre dare un’ovvia opinione, dai delitti alle ricette di cucina fino al gossip e alle visioni mistiche.

Il momento della giornata lavorativa che ti godi di più.

La fine del montaggio della puntata, quando la cassetta è in viaggio per la messa in onda e io mi rilasso ascoltando della musica, e una volta a casa, prendo un buon libro e il televisore resta spento.

In due parole come definiresti il tuo mestiere? 

Guardare molta televisione, leggere il più possibile e riproporre con uno stile personale estratti visivi della memoria collettiva della nostra società.

Un consiglio a chi vuole fare questo mestiere.

Ci vuole un fisico bestiale, una grande passione civica, una grande memoria e uno strano amore per il mondo della televisione.

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Simona Bramati – pittrice

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Come/perché hai deciso di dedicarti a questo mestiere?

Non c’è né un come né un perché. Volevo fare l’artista già da piccolina, anche se non ne avevo la coscienza piena di quel che significasse. Sapevo che mi piaceva disegnare e che il fascino che mi procurava una matita colorata non me lo dava neanche una Barbie.

Quali sono le piccole soddisfazioni che riesce a darti?

Ne ho fatto la mia vita dandole forma attorno alla mia passione,  e non potrei pensarla diversamente. Insieme alle soddisfazioni ci sono anche tante delusioni, ma devo ammettere che questo “mestiere” mi ha permesso di conoscere tanta gente meravigliosa che non avrei in nessun’altra maniera potuto incontrare. Lo scambio che è avvenuto con tanti di loro mi ha dato sempre una grande carica e imput per non abbandonare mai la mia strada.

Quali sono gli odori che caratterizzano il tuo mestiere? Quali i colori?

L’acquaragia in primis e l’olio di lino sono, di solito, i miei odori. La trementina oramai non lo è più per motivi di salute. Il mio corpo si è talmente saturato che oggi non posso neanche immaginare di vederne un barattolo neppure da lontano.

I colori invece, tutti. Ognuno di loro mi serve per crearne altri. Poi ci sono i periodi in cui il nero sovrasta o momenti in cui i bianchi fanno da sfondo, ma questo dipende molto dal mio stato d’animo e da quello che voglio trasmettere.

Cosa non deve mancare nella tua “cassetta degli attrezzi”?

Pinze, chiodi, cacciaviti, graffette, martelli, trapano, lime, pennelli, spatole, taglierino, forbici, matite, pennarelli, in pratica sono una ferramenta o poco ci manca.

Quali sono le persone che ti permette di incontrare/conoscere? Ce n’è una che ricordi in particolare? 

Ce ne sono tante e ognuna ha lasciato un grande ricordo. Sir John Denis Mahon, per esempio, il più grande conoscitore del Guercino al mondo, grandissimo collezionista e storico d’arte britannico, se ne andò dopo il nostro incontro con un ritratto a penna che gli feci sopra un piatto di plastica mentre discutevamo di pittura. La sua assistente mi disse che a casa sua, anche in bagno, non vi era più lo spazio per muoversi liberamente dai tanti libri accumulati.                                                                                                                           L’altro è Alberto Granado, scienziato argentino fondatore della scuola medica di Santiago de Cuba, che dopo aver visitato la mia personale  Lachesi, la filatrice del destino a Jesi, nel 2008, mi disse tu “tú eres la Reina” riferendosi a Basileia, un grande dipinto di 300×150 che rappresenta la regina di un mondo in cui si ripercorrono i cicli naturali della vita umana e animale, e che mi rassomiglia perché al momento di dipingerlo usavo uno specchietto per ricopiare alcuni tratti del mio viso, mentre ero lassù, in cima al trabattello. Questi due uomini non ci sono più, ma il loro ricordo è più vivo che mai.

Un episodio in cui hai pensato “chi me lo ha fatto fare?”

Uno solo? Ce ne sono tantissimi. L’esperienza più recente è la partecipazione  a La Processione di Carletto, un itinerario tutto da scoprire dal Friuli Venezia Giulia al Molise con varie tappe fatte di dibattiti, riflessioni e feste con artisti, poeti, musicisti e contadini. Quasi 1400 km a piedi fatti in compagnia dell’artista Michele Mariano, delle asinelle Carletto e Agalma e del super cane Giulio. Un’impresa da Disertori in avanti. Un po’ Armata Brancaleone, un po’ Don Chisciotte, un po’ Spedizione dei Mille e un po’ Marcia sul Fiume.

Il momento della giornata lavorativa che ti godi di più.

Sicuramente la notte. Ci siamo solo io e gli animali.  Nessun disturbo da parte degli umani e dei loro chiacchiericci.

 In due parole come definiresti il tuo mestiere?

Viaggio nel mio tempo.

Un consiglio a chi vuole fare questo mestiere.

Questa domanda mi è stata posta molte volte. Ho sempre cercato di rispondere al meglio, ma oggi mi sento di non dare consigli oltre al fatto di dire che se uno crede in una cosa deve andare avanti con la passione. Tutto il resto è superfluo.

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Le foto sono di Giuseppe Chiucchiù

Qui il sito di Simona Bramati

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Carlo Nocentini – architetto

 

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Come/perché hai deciso di dedicarti a questo mestiere?

Per tutta l’infanzia, mio padre, che era ingegnere, mi ha ripetuto che avrei dovuto fare il notaio. Col tempo invece si è limitato a farmi capire che effettivamente avrei potuto fare quello che volevo, a patto però che non avessi scelto di fare l’architetto. E questa fu la prima ragione.                                                                                                                                              La seconda fu la visita, sempre in età adolescenziale, a una grande mostra di Andrea Palladio a Vicenza dalla quale uscii con il catalogo in mano, e appena arrivato a casa incominciai a ricopiare capitelli e trabeazioni. Questa passione la sviluppai anche appena laureato collaborando al corso di letteratura architettonica dell’Università di Firenze del professor Morolli, recentemente scomparso, nel quale, sostanzialmente, si dibatteva e si analizzava il linguaggio classico dell’architettura nell’interpretazione dei maggiori trattatisti, da Vitruvio all’Alberti, al Vignola. Per qualche anno mi sono dedicato unicamente a questa mia passione, ho conseguito un dottorato in storia dell’architettura e prodotto parecchie pubblicazioni tematiche tenendomi a rispettosa distanza dalla professione. A parte questo, la vera ragione della mia scelta da ragazzo risiede nel fatto che ritenevo l’architetto l’unica professione che mi avrebbe permesso di sopravvivere facendo qualcosa di artistico e di creativo. E così è stato, fortunatamente, fino a oggi.

Quali sono le piccole soddisfazioni che riesce a darti?

Le soddisfazioni sono direttamente proporzionali alle preoccupazioni iniziali: qualunque progetto ambizioso si riesca a completare ripaga, in genere, con grandi soddisfazioni. Le più grandi fino a oggi sono il restauro e il completamento della chiesa Parrocchiale di Osteria Grande, incompleta in alcune parti di ornato, e danneggiata dal sisma del 2003, nella quale ho potuto misurarmi con tecnologie all’epoca avveniristiche come le fibre di carbonio. Il restauro è stato inaugurato dal Cardinale Caffarra che si è dovuto anche “subire” una conferenza di un paio di ore sulle tecnologie e le scelte adottate, cosa che, a giudicare dall’attenzione prestata, credo lo abbia anche divertito. La soddisfazione più eclatante, anche se in misura più modesta come tipo di intervento, ma altamente simbolica per me, è stata la presentazione di un mio libro sugli ingressi monumentali del classicismo in un auditorium da me realizzato, presso la sede della Faac di Zola Predosa. La cosa ha reso contemporaneamente onore a entrambe le mie grandi passioni: la storia dell’architettura e la progettazione architettonica. Una soddisfazione ancora più sottile ma più frequente deriva dai buoni rapporti che in genere mi capita di instaurare con i miei clienti i quali, diventando il più delle volte dei veri e propri amici, mi invitano a cena nelle case che ho realizzato con loro. Condividere con loro gli spazi mi fa capire, soprattutto a distanza di anni, se ho centrato o meno l’obiettivo, e soprattutto, forte anche della scarsità di memoria che mi contraddistingue, riesce a farmi scoprire particolari che non so mai se siano stati effettivamente pensati o frutto del caso, ma che in genere mi stupiscono sempre.

Quali sono gli odori che caratterizzano il tuo mestiere? Quali i colori?

L’odore piacevole di quando apro un cassetto di matite che mi riporta immediatamente all’infanzia scolastica. Gli odori sgradevoli delle murature bagnate a seguito di una demolizione. Perché ogni demolizione, anche se programmata, è sempre una sconfitta. Sui colori e sull’importanza degli stessi si potrebbe disquisire per ore essendo parte predominante della mia ricerca espressiva. Posso solo dire che ho capito l’importanza del loro utilizzo nei luoghi di lavoro, come siano in grado di fare sentire a proprio agio le persone che in quei luoghi vi stazionano per un terzo della loro vita.

Cosa non deve mai mancare nella tua “cassetta degli attrezzi”?

A livello teorico non deve mai mancare la “santa pazienza”, indispensabile nel dialogo coi clienti, con gli amministratori, coi costruttori. A livello pratico il fido taccuino Moleskine (mi si permetta la pubblicità essendo la proprietà tra i miei più cari clienti) sui quali oltre alle incombenze e agli appuntamenti mi sfogo disegnando tutte le ville e le costruzioni complesse che vorrei realizzare.

Quali sono le persone che ti permette di incontrare/conoscere? Ce n’è una che ricordi in particolare?

Non so se sia una fortuna o una disgrazia, ma mi rendo conto che parlo ininterrottamente da quando mi sveglio a quando mi spiaggio stremato, a sera, sul divano di casa. Credo molto di più nella comunicazione verbale che nei disegni impeccabili, e spesso mi tocca decidere in pochi attimi come “aggiustare” qualcosa che era stato a sua volta perfettamente progettato nel silenzio dello studio, ma che in cantiere non torna. Mi piace quando riesco a crearmi un ambiente favorevole sul lavoro, soprattutto con gli esecutori, in genere artigiani che, se appassionati del proprio mestiere, possono insegnarmi di tutto. È paradossale, ma fin dai miei esordi mi sono trovato a spiegare agli esecutori come fare le cose, come muovere le mani, quali fossero le successioni degli interventi per arrivare a un risultato. La cosa più buffa è che io, con le mani, riesca, a stento, a gonfiare la ruota della bicicletta.  Pur non avendo alcuna capacità di esecuzione, sono in grado di spiegare a tutti, credo in maniera semplice, quali siano le mie esigenze sull’opera finita. Poi credo nella capacità degli altri e devo dire che in questi 25 anni di esperienza io abbia ricevuto enormi soddisfazioni.  Persone ‘importanti’ ne ho incontrate parecchie e devo dire mi sono quasi sempre stupito della loro essenziale semplicità, al di fuori dagli schemi e dall’aspetto. Quando entri in casa loro, diventi per un periodo parte integrante della famiglia e consulente globale anche su scelte che nulla hanno a che fare con la architettura, spaziando dalla moda ai vini da abbinare ai cibi. Colui che mi ha dato di più, voglio ricordarlo ancora, è il professor Gabriele Morolli, che mi ha ‘forgiato’ a sua immagine e somiglianza e quando ha capito che avevo più voglia di fare l’architetto che lo storico, mi ha incoraggiato ad andare per la mia strada trasformandosi da “maestro” in amico insostituibile, quasi un fratello maggiore. Poi, naturalmente, mio padre. Da bambino quando mi portava con lui che si occupava delle grandi bonifiche del dopoguerra, assistevo al rapporto che aveva con i suoi collaboratori e i suoi operai, un rapporto sempre cordiale, sincero e rispettoso, da entrambe le parti. In questi anni ho cercato di replicare quell’atteggiamento e ne sono stato ampiamente ripagato.

Un episodio in cui hai pensato “chi me l’ha fatto fare?” 

Partendo dal presupposto di essere, quanto meno, una persona cauta, sono uno che si spaventa davanti alle difficoltà, soprattutto a quelle di natura strutturale, dove solo i miei fidati ingegneri possono rassicurarmi. Del resto, ho capito che qualsiasi sfida, per ambiziosa che sia, va affrontata, e che dal particolare si arriva al generale, così come dal piccolo si passa al grande. La spirale del DNA ha la stessa forma delle infinite galassie, un progetto enorme è composto da tanti progettini atomizzati che concorrono al tutto. L’importante è il metodo che deve essere sempre lo stesso.

Il momento della giornata lavorativa che ti godi di più.

Quello in cui posso, ordinatamente, dedicarmi a qualcosa senza pensarne altre dieci contemporaneamente; purtroppo accade di rado.

In due parole, come definiresti il tuo mestiere?

Lucidi segni.

Un consiglio a chi vuole fare questo mestiere.

Raccomando a tutti di studiare la storia dell’architettura e di disegnare le cose che piacciono semplicemente ricopiandole. Questo aiuta a comprendere il senso delle proporzioni e ad accorgersi di particolari che anche all’esame più attento possono passare inosservati. Questo esercizio va fatto anche in fase di progettazione. Non c’è quasi niente che non sia già stato pensato da qualcun altro e non c’è niente di male a ispirarsi, soprattutto se il progetto è ben congegnato. Poi sta alla sensibilità del singolo mischiare le varie informazioni e riformularle secondo il proprio gusto.                                                                                         Poi, mi permetto di ricordare e di valutare con rispetto quanti ci hanno preceduti. L’opera di chi è venuto prima di noi, anche se insignificante, può raccontare qualcosa della nostra storia e ricordare che ogni qualvolta si cancella una traccia, lo si fa per sempre. Comunque mi sento di consigliarlo a un giovane. Di sicuro è un gran mestiere, e mi ritengo molto fortunato.

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Qui il sito internet di Carlo Nocentini

 

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Come/perché hai deciso di dedicarti a questo mestiere?

In primis per passione e vocazione per la musica e la danza sin dall’infanzia aiutate da influenze artistiche e sportive in famiglia. Mio padre è stato calciatore professionista in serie C, nel Lecce Calcio. Suo padre, cioè mio nonno, che si chiamava Amedeo Sozzo, era un affermato tenore lirico e insegnante di canto attivo negli anni Venti e Trenta del XX secolo. Il suo ricordo resta molto forte nella memoria storica leccese nel libro Vita musicale a Lecce e nel Salento di Renzo D’Andrea.  Altri stimoli culturali e artistici li ho avuti dagli zii, Andrea Sozzo, pianista e capitano dell’esercito durante la seconda guerra mondiale, ed Enzo Sozzo, figura di spicco nel panorama internazionale delle arti figurative e uomo politico. Anche di loro la storia leccese conserva salde le testimonianze vedi la toponomastica dell’odierna città lupiense con due vie che li commemorano e i libri Enzo Sozzo a cura di Maurizio Nocera e La valigia di Enzo Sozzo in cui segnalo un passo d’affettuoso omaggio che lo zio dedicò a me. Mia zia, Angela Sozzo, era invece un’insegnante di educazione fisica e danza classica. Questa sua attività ha contribuito a incrementare su di me il fascino del movimento corporeo applicato alla musica e all’acquisizione dei primi passi, delle  prime posizioni e movenze e al mio primo sogno di indossare le scarpette con le punte. Il resto lo devo allo studio del canto lirico e moderno, all’esperienza nei maggiori teatri lirici italiani come comprimario e mimo danzatrice e al fatidico incontro con la World Music che mi ha fatto entrare a pieno titolo nel mondo delle danze etniche e di espressione curandone gli aspetti educativi a livello interculturale formativi della crescita e del benessere in danza. Da qui la decisione – in linea con gli insegnamenti della famiglia volti a fare della virtù non solo un lavoro passionale ma anche utile a livello sociale  – di dedicarmi all’insegnamento, in particolare rivolto a donne e bambini che li accompagna nel processo di auto-scoperta, valorizzazione e ricerca di sé.

Quali sono le piccole soddisfazioni che riesce a darti?

Le mie soddisfazioni sono le manifestazioni delle soddisfazioni delle allieve che raggiungono un risultato. Sono vedere una mamma e una figlia condividere assieme una stessa lezione; sono gli stimoli e le nuove motivazioni che nella danza anche un’ ultrasettantenne può trovare; sono nell’allieva che mi ringrazia per la magia rivoluzionaria che la danza ha portato nella sua vita, segno che qualcosa di buono, benefico, costruttivo e utile è stato fatto anche socialmente; sono le emozioni della partecipazione gioiosa e del forte entusiasmo trasmessomi dal pubblico sull’onda del feeling reciproco quando danzo;  sono il rapporto d’amore spirituale che si accende con le persone che si lasciano coinvolgere nell’armonia gestuale e comunicativa.

Quali sono gli odori che caratterizzano il tuo mestiere? Quali i colori?

A volte il mio mestiere richiama l’odore di incenso se si tratta della danza orientale ma può essere anche un profumo Chanel quando si passa nella classe di Burlesque o di Portamento oppure odori freschi alla vaniglia misti a mirra se si varca la soglia della classe di danza Afro. Senza escludere, ovviamente, a volte, quell’odore primordiale di sudore, frutto del prodursi in movimento continuo per almeno un’ora e un quarto. I colori sono quelli dell’abbigliamento, ovviamente. Dal nero neutro teatrale alla vasta gamma multicolore e sgargiante servono a rendere lo stato d’animo del momento (puoi sentirti solare e color pastello anche se fuori è grigio e piove) o indicano la necessità di una specifica messa in pratica di passi e movenze. Poi quelli delle luci, fondamentali per le atmosfere sul palcoscenico e non solo.

Cosa non deve mancare nella tua “cassetta degli attrezzi”?

A livello pratico, anche se a volte se ne può fare a meno, non devono mancare la musica e le scarpe. Il tutto condito da una certa dose di savoir faire, quanto basta, come il pepe.

Quali sono le persone che ti permette di incontrare/conoscere? Ce n’è una che ricordi in particolare? 

Si tratta soprattutto di donne, tutte portatrici di grande umanità e ricchezza, tutte con le loro storie. Ne ricordo una in particolare. Si trattava di una donna che soffriva di anoressia. Sensibilissima ed estremamente colta e virtuosa. Ha  mostrato un’infaticabile lotta verso la conquista della vita, verso la ricerca di una nuova strada che portasse a un rapporto sano col proprio corpo, una nuova gioia per esistere e per  individuare il proprio femminino nascosto.  E poi ricordo i bambini. Mi sento davvero Mary Poppins quando lavoro con loro.

 Un episodio in cui hai pensato “chi me lo ha fatto fare?”

Come insegnante mai, non l’ho mai pensato neanche di fronte all’allievo più difficile. L’ho pensato invece come danzatrice performer in quei momenti in cui, in Italia, mi scontravo con quelle realtà e persone che sottovalutano l’arte, non riconoscendo alla danza quel valore benefico sociale, ricreativo o educativo e formativo, relegandola così a mero giochino d’attrazione e non al suo giusto ruolo professionale e lavorativo. Da sempre in Italia l’arte, e quindi anche la cultura, risente di quel detto prendi e l’arte e mettila da parte  quasi fosse un di più, un hobby banale, un qualcosa di cui si può fare  a meno. Trovo invece che una società, composta da individui soddisfatti, ricreati, auto-consapevoli e che possano esprimersi, nonché meno frustrati, possa essere una società più armonica e tendenzialmente più felice.

Il momento della giornata lavorativa che ti godi di più.

Il momento che mi godo di più è quello che vivo quando a lezione creo coreografie ad hoc volte al coinvolgimento dei partecipanti e al raggiungimento della massima intesa con loro in un tripudio di energia positiva e ricreativa che ci fa  sentire davvero la felicità.

 In due parole come definiresti il tuo mestiere.

Passional-avventuroso e filantropico. 

Un consiglio a chi vuole fare questo mestiere.

Se la danza ti chiama e la vocazione è autentica, segui il cuore ma mettici sempre la testa! Bisogna ricordarsi che si è comunque sempre responsabili della salute psico-fisica delle persone e che si deve essere preparatissime, pronte e aperte, in maniera elastica, a qualsiasi evenienza, esigenza individuale, in un binomio indissolubile di know how e problem solving.

ImmaginePagina Facebook di Andreina Sozzo

 

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Come/perché hai deciso di dedicarti a questo mestiere?

Ho iniziato a lavorare nell’edilizia nel lontano 1977 quando mia madre si accorse che invece di frequentare la Pallavicini, una scuola per formazione professionale, me ne andavo a bighellonare per Bologna. E così, un giorno, mentre si trovava al mercato settimanale del martedì a Savigno, chiacchierando con una sua amica, venne a  sapere che la ditta Paganelli&Guidotti cercava operai. Il lunedì successivo, svestiti i panni dello studente e indossati quelli del muratore, mi sono trovato in un cantiere, a Zocca, in provincia di Modena. Si trattava di un palazzo di diciotto appartamenti, tutto da intonacare a scagliola.

Quali sono le piccole soddisfazioni che riesce a darti?

Certamente i complimenti dei committenti per i lavori finiti con cura e abilità, ma anche l’aver imparato a leggere i disegni tecnici degli architetti e dei geometri. A volte seppure con difficoltà ho “allargato” il mestiere del muratore aggiungendo anche la posa di cartongesso che, verso la fine degli anni ’90 mi impegnò parecchio, ma ho sempre preferito le ristrutturazioni delle vecchie case.

Quali sono gli odori che caratterizzano il tuo mestiere? Quali i colori?

Mi piace l’odore della polvere di vecchi intonaci e della calce che sa di naturale, come quello della terra. Mi piace quello del legname che conserva l’odore di un tempo; quello di una saponetta chiusa nel cassetto del comò che la scarti al momento del bisogno.

Il color ocra della calce che si mescola con il grigio dei sassi e accanto al bianco del gesso che nasconde in sé luccicanti pezzettini di quarzo, come chicchi di grano, diamanti grezzi che legano insieme mattoni rossi intrecciati tra loro. Ci sono muri che celano “ricche” incognite come quella che chiamavano la pignatta,  piccolo recipiente in terracotta pieno di marenghi d’oro. La leggenda  vuole che a volte, i signori di un tempo, non avendo casseforti, collocassero la pignatta con il loro piccolo tesoro in una nicchia del muro e lì la murassero. Ecco perché quando si ristruttura una vecchia casa, al suono sordo del muro si pensa sempre  a un nascondiglio segreto quando il più delle volte si tratta di una vecchia canna fumaria dimenticata. I vecchi però mi raccontarono di un ritrovamento di una pignatta in una casa vicino a Tolè, durante una demolizione. Dentro vi trovarono ventitré marenghi d’oro. Al cambio attuale non sarebbe neppure una cifra strabiliante, al massimo quattromila euro, però sono soddisfazioni. Da sognatore avrei voluto esserci stato, portato dall’arcobaleno degli elfi, ma questa è un’altra storia.

Cosa non deve mai mancare nella tua “cassetta degli attrezzi”?

Sta pur certo che ciò che ti serve non c’è mai! Mi hanno sempre raccontato che coloro che iniziavano questo lavoro dalle nostre parti, sulle colline dell’appennino bolognese, erano per di più contadini che cercavano di portare avanti la famiglia e quindi facevano un po’ di tutto, e se mancava un cacciavite poteva bastare la punta di un paio di forbici. Un tubo perdeva? Si poteva fare una giunta con una canna di bambù e filo di ferro. Da qui il detto “Se l’è cavata? Par forza, l’è un cuntadein!”

Quali sono le persone che ti permette di incontrare e conoscere? Ce n’è una che ricordi in particolare?

In questi anni ho conosciuto persone di ogni tipo. Ho lavorato per conti, marchesi, stimati avvocati, consoli, personaggi pubblici, politici, ma non mi sono mai trovato a mio agio così come mi trovo con la gente comune quando c’è perfetta armonia. Ricordo un episodio che accadde quando ero molto giovane, in un cantiere a Modena, a casa di un personaggio politico. Stavo realizzando dei controsoffitti in cartongesso quando il muratore che avevano ingaggiato cominciò dapprima a farmi delle avance, poi a mettermi le mani addosso. Io scappai e ne parlai col proprietario. Fu un vero casino! Si trattava di una famiglia bigotta e da quel giorno, moglie, marito e nonno, a turno, mi rimasero accanto per permettermi di finire la settimana, alla fine della quale, quel “signore” venne allontanato.

Un episodio in cui hai pensato “che me lo ha fatto fare?”

Il lavoro del muratore è un lavoro sporco, faticoso, a volte sei nella merda come quando sei alle prese con gli scarichi fognari delle case, per non parlare di quei palazzi dove ti raccomandi di non tirare l’acqua in una certa fascia oraria e la tua raccomandazione viene ignorata. Ho avuto anche il privilegio di sistemare l’impianto fognario nel palazzo di Lucio Dalla e ciò mi lusinga.

Il momento della giornata lavorativa che ti godi di più.

Il momento che ti gusti di più nel bel mezzo della giornata è il pranzo, dopo avere tolto la gamella a bagnomaria con il tuo pasto. Sì, io mangio ancora quello che porto da casa: la pasta della sera prima, un po’ di secondo, una mela, del  formaggio, ciò che la credenza offre. A volte, in barba all’ingegnere responsabile della sicurezza, apro anche una bella boccia di vino, e sono pronto a farla sparire subito dopo.

In due parole come definiresti il tuo mestiere.

Bello e importante.

Bello perché ti offre la possibilità di costruire qualcosa con le tue mani, di toccare dal vivo ciò che realizzi; importante perché senza muratori chi metterebbe un tetto sulla testa di ogni uno di noi? Chi riparerebbe il vecchio prendendosi cura della storia? Proviamo a pensare a quelli che hanno costruito Bologna, senza argani, senza ponteggi metallici ne’ betoniere per mescolare il cemento. Oggi per ogni intervento c’è un prodotto specifico, i muri vanno su quasi da soli.

Un consiglio a chi vuole fare questo mestiere.

Serve qualcosa che non c’è in commercio, si chiama passione. Non fatelo per sbarcare il lunario, non vi entrerà mai dentro, non capirete mai cosa state facendo. Serve passione perché solo così si può imparare a lavorare. Non esistono scuole o corsi di formazione e tutto quel che serve si impara sul campo.

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Guido Biagetti – Pilota di linea e Istruttore di volo

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Come/perché hai deciso di dedicarti a questo mestiere?

A 17 anni ho cominciato ad amare il cielo. Le mie prime esperienze sono legate al paracadutismo, sport che ho praticato intensamente e a livello agonistico. Per pagarmi gare e allenamenti, quando ancora ero studente, ho fatto diversi lavori, e conoscendo così precocemente il mondo del lavoro, ho capito che se non avessi fatto coincidere la mia grande passione con la mia attività, avrei perso un sacco di tempo prezioso, visto che passiamo la grande parte della nostra vita impegnati a fare il nostro mestiere. Poiché il paracadutismo non poteva trasformarsi in professione, ho cominciato a guardare gli aerei come mezzo per passare più tempo possibile immerso nel blu, svolgendo un’occupazione remunerativa.

Quali sono le piccole soddisfazioni che riesce a darti?

Mi permette di osservare il cielo e tutte le sue innumerevoli sfumature, guardare sconfinati orizzonti, siano essi prati multicolori o catene montuose. Attraverso queste prospettive infinite, dove lo sguardo corre libero, percorrendo distanze percettibili solo da alta quota, il mio spirito si espande, godo di un profondo senso di libertà che ricarica la mia voglia di sentirmi vivo, e attraverso questa emozione affronto la vita con la costante fiducia di avvicinarmi sempre di più a ciò che dà un senso alla nostra esistenza.

Quali sono gli odori che caratterizzano il tuo mestiere? Quali i colori?

Gli odori sono quelli della rugiada mattutina, quando all’alba ti accosti al velivolo ancora bagnato dall’umidità della notte e respiri l’aria fresca e pungente che caratterizza tutte le albe. I colori sono il rosso fuoco del cielo quando il sole sorge o tramonta. Dall’alto ti liberi della foschia e dello smog che soffoca le città, e ogni colore diventa più brillante attraverso l’aria cristallina.

Cosa non deve mancare nella tua “cassetta degli attrezzi”?

Per fare questo mestiere non devono mancare la passione e una mentalità rivolta alla sicurezza. Il cielo è tanto generoso quanto punitivo se lo si sottovaluta. Umiltà, conoscenza e buon senso sono gli elementi indispensabili per convivere in armonia con l’azzurro infinito.

Quali sono le persone che ti permette di incontrare/conoscere? Ce n’è una che ricordi in particolare? 

Facendo questo mestiere conosci soprattutto la solitudine, poiché spesso sei lontano da casa e il tuo tempo libero non è quasi mai in accordo a quello dei tuoi amici. È un mestiere che ti porta a maturare velocemente e a confrontarti continuamente con te stesso. A volte, però, incontri colleghi sorprendenti la cui profondità ti permette un bel confronto. Incontri persone completamente spaesate da una esistenza da zingaro, altre che hanno trasformato in dimora le proprie emozioni e possono raccontarti cose straordinarie e farti vedere il mondo con gli occhi di chi conosce prospettive in continua mutazione.

Un episodio in cui hai pensato “chi me lo ha fatto fare?”

Lo penso tutte le volte che vedo il cielo nero e minaccioso e devo trovare un passaggio attraverso il quale dirigere il mio aereo, senza offendere quel cielo dall’umore alterato. Come uno sciamano invio a lui una preghiera, affinché  sia indulgente con me e mi permetta di portare fino in fondo, serenamente, la mia missione.

Il momento della giornata lavorativa che ti godi di più.

Quell’attimo in cui posso staccare gli automatismi e disegnare manualmente le mie traiettorie nel cielo, proprio come un pittore che fa scorrere il pennello su di una tela.

In due parole come definiresti il tuo mestiere?

Un’arte.

Un consiglio a chi vuole fare questo mestiere.

È un mestiere che cela molto abilmente, a chi non lo pratica, sacrifici enormi, paure e frustrazioni. È vero che regala anche momenti straordinari, ma se non sei motivato da una vera e profonda passione che ti spinge a non potere vivere senza volare, i sacrifici sono tali da scoraggiare chiunque non sia davvero convinto.

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http://www.unilibro.it/ebooks/f/autore/guido_biagetti 

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Cristina Turtura – Insegnante di canto lirico

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Come/perché hai deciso di dedicarti a questo mestiere?

Ho iniziato per caso, per soddisfare la curiosità di provare a farlo. Una mia amica mi aveva detto che sul giornale locale degli annunci c’era una persona che cercava un’insegnante di canto, e così mi sono fatta avanti io. Si trattava  di una ragazzina totalmente disinteressata alla musica, alla quale però erano state consigliate da parte del medico lezioni di canto per imparare a respirare bene.  Aveva qualche problema ai polmoni. E così cominciai a insegnare canto a chi di canto non ne voleva sapere.

Quali sono le piccole soddisfazioni che riesce a darti?

Mi aiuta a liberare le energie e le fantasie represse nelle persone, e così posso godere di quelle gioie inaspettate che i miei allievi provano.

Quali sono gli odori che caratterizzano il tuo mestiere? Quali i colori?

L’odore è quello della pece del violinista che poco prima di me ha occupato l’ aula; quello del  legno profumato della spinetta che mi sta accanto; l’odore della carta degli spartiti e dei libri che sfoglio.

I colori sono il nero laccato del pianoforte e quello dei segni sul pentagramma che contrastano coi colori variopinti degli abiti degli allievi.

Cosa non deve mancare nella tua “cassetta degli attrezzi”?

Oltre agli spartiti, non devono mancare mai la spontaneità e l’improvvisazione. Mai affrontare questo lavoro applicando a tutti qualcosa di preconfezionato. Insegnare a cantare è come sciogliere nodi, uno di seguito all’altro, ed è importante capirne l’ordine di importanza e affrontarli uno alla volta in maniera originale e personalizzata.

Quali sono le persone che ti permette di incontrare/conoscere? Ce n’è una che ricordi in particolare?

Nessuno può immaginare quanto sia variegato il popolo che ama cantare. Ce n’è di tutte le età, e  provengono da ogni settore lavorativo. Ipersensibili e attenti a prescindere dal genere e dal motivo che li spinge a rivolgersi a una scuola di canto. Certi allievi a volte si fanno ricordare, e ne ricordo una in particolare. Si tratta di una ragazza che ha studiato con me per un certo periodo e che poi ha lasciato il canto per mettere su famiglia. Era portatissima per il canto ma non ha esitato a fare la sua scelta. Ho sempre ritenuto che i suoi bambini fossero fortunati pensando alle belle ninnenanne che quella ragazza avrebbe loro cantato.

Un episodio in cui hai pensato “chi me lo ha fatto fare?”

È successo durante il primo saggio che ho organizzato per gli allievi. Durante le loro esibizioni, nonostante la mia calma apparente, ho capito di soffrire più di loro.

Il momento della giornata lavorativa che ti godi di più.

Mi piace l’inizio della lezione, quando capisci con chi hai a che fare. Quel momento in cui tutto comincia e ci si prodiga per cercare il bandolo di quella matassa da riavvolgere.

In due parole come definiresti il tuo mestiere.

Fare scoprire (quel qualcosa che è represso dentro), e aiutare ad esprimerlo.

Un consiglio a chi vuole fare questo mestiere.

Noi musicisti siamo narcisisti, spesso orgogliosi e a volte pericolosi. E nell’insegnamento del canto è facilissimo sbagliare. Consiglio di non avere timore di ammettere i propri errori, le proprie mancanze, e di accettare anche i momenti di esplorazione e di ricerca. Essere onesti con se stessi riguardo ciò che si sa e ciò che non si sa. Una persona che si affida a noi può pagare i nostri errori di orgoglio con la perdita della voce, con il calo del desiderio o della capacità di cantare per molti anni. Si tratta di una grossa responsabilità. Mai pensare di possedere gli allievi come fossero un oggetto di proprietà. Sono loro i veri maestri e noi insegnanti di canto non siamo altro che uno strumento nella loro cassetta degli attrezzi.

 

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Eleonora Buratti – scrittrice, sociologa aziendale

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Come e perché hai deciso di dedicarti a questo mestiere?

Non credo di averlo ancora deciso, ci sto arrivando a piccoli passi, parola dopo parola. Come fosse la fine di un discorso che riesci a comprendere solo quando è stato formulato per intero. Per il resto, ha fatto tutto quella che da sempre chiamo l’urgenza di scrivere, e scrivere è qualcosa che facevo fin da bambina. Alle aziende invece mi sono avvicinata dopo aver letto Adriano Olivetti. La sua attenzione agli ambienti di lavoro mi affascina da sempre. Ho voluto semplicemente andare a vedere se quel che diceva era vero.

Quali sono le piccole soddisfazioni che riesce a darti?

L’emozione di qualche bella frase che rileggendola mi fa pensare “per fortuna che l’ho scritta io”, e qualcuno che mi confessa di aver letto i miei libri in luoghi e contesti impensabili.

Quali sono gli odori che caratterizzano il tuo mestiere? Quali i colori?

A volte sa di mare, perché me lo porto dentro; spesso ha l’odore dei luoghi che racconto, della muffa degli scantinati dove si lasciano morire gli oggetti del passato. Qualche volta sa dell’acqua di colonia che usava mia nonna. I colori invece sono il bianco e il nero di un foglio che si sporca a ogni parola.

Cosa non deve mancare nella tua “cassetta degli attrezzi”?

Il vocabolario è sicuramente il mio più grande alleato.Capita spesso di scoprire che alcuni vocaboli abbiano significati diversi da quelli che ci saremmo aspettati. Di solito sulla mia scrivania tengo anche il manuale di stile, una miriade di fogli e foglietti di appunti presi un po’ qua e un po’ là e un piccolo registratore vocale.

Quali sono le persone che ti permette di conoscere? Ce n’è una che ricordi in particolare?

Scrivendo perlopiù  romanzi d’azienda e romanzi vitae, i protagonisti delle mie storie sono solitamente persone in carne e ossa. Ed è quella la gente che incontro, che mi racconta, che si commuove. Vivo coi miei personaggi, ci vado a prendere il caffè insieme, e per uno scrittore non è poco, ve lo assicuro.

Un episodio in cui hai pensato “chi me lo ha fatto fare?”

Era il dicembre del 2009, alla presentazione del mio secondo romanzo “Le stagioni diverse – Quel vivere che sembra un vivere per niente” c’erano più di 400 persone ad aspettarmi. Prima di salire su quel palco ho desiderato sfregare la pancia della lampada e chiedere ad Aladino di scomparire.

Il momento della giornata lavorativa che ti godi di più?

La notte. Quando durante il giorno ho scritto almeno due pagine e di notte mi rileggo l’intero capitolo illudendomi che l’abbia scritto un altro.

In due parole come definiresti il tuo mestiere?

Una piacevole consolazione.

Un consiglio a chi vuole fare questo mestiere.

Frequentare corsi di scrittura, leggere, accertarsi di avere qualcosa da raccontare, e soprattutto non tirarsela nel tentativo di diventare personaggio. L’artista scontroso e intrattabile non va più di moda.

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Eleonora Buratti – scrittrice, sociologa aziendale

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Come e perché hai deciso di dedicarti a questo mestiere?

Non credo di averlo ancora deciso, ci sto arrivando a piccoli passi, parola dopo parola. Come fosse la fine di un discorso che riesci a comprendere solo quando è stato formulato per intero. Per il resto, ha fatto tutto quella che da sempre chiamo l’urgenza di scrivere, e scrivere è qualcosa che facevo fin da bambina. Alle aziende invece mi sono avvicinata dopo aver letto Adriano Olivetti. La sua attenzione agli ambienti di lavoro mi affascina da sempre. Ho voluto semplicemente andare a vedere se quel che diceva era vero.

Quali sono le piccole soddisfazioni che riesce a darti?

L’emozione di qualche bella frase che rileggendola mi fa pensare “per fortuna che l’ho scritta io”, e qualcuno che mi confessa di aver letto i miei libri in luoghi e contesti impensabili.

Quali sono gli odori che caratterizzano il tuo mestiere? Quali i colori?

A volte sa di mare, perché me lo porto dentro; spesso ha l’odore dei luoghi che racconto, della muffa degli scantinati dove si lasciano morire gli oggetti del passato. Qualche volta sa dell’acqua di colonia che usava mia nonna. I colori invece sono il bianco e il nero di un foglio che si sporca a ogni parola.

Cosa non deve mancare nella tua “cassetta degli attrezzi”?

Il vocabolario è sicuramente il mio più grande alleato.Capita spesso di scoprire che alcuni vocaboli abbiano significati diversi da quelli che ci saremmo aspettati. Di solito sulla mia scrivania tengo anche il manuale di stile, una miriade di fogli e foglietti di appunti presi un po’ qua e un po’ là e un piccolo registratore vocale.

Quali sono le persone che ti permette di conoscere? Ce n’è una che ricordi in particolare?

Scrivendo perlopiù  romanzi d’azienda e romanzi vitae, i protagonisti delle mie storie sono solitamente persone in carne e ossa. Ed è quella la gente che incontro, che mi racconta, che si commuove. Vivo coi miei personaggi, ci vado a prendere il caffè insieme, e per uno scrittore non è poco, ve lo assicuro.

Un episodio in cui hai pensato “chi me lo ha fatto fare?”

Era il dicembre del 2009, alla presentazione del mio secondo romanzo “Le stagioni diverse – Quel vivere che sembra un vivere per niente” c’erano più di 400 persone ad aspettarmi. Prima di salire su quel palco ho desiderato sfregare la pancia della lampada e chiedere ad Aladino di scomparire.

Il momento della giornata lavorativa che ti godi di più?

La notte. Quando durante il giorno ho scritto almeno due pagine e di notte mi rileggo l’intero capitolo illudendomi che l’abbia scritto un altro.

In due parole come definiresti il tuo mestiere?

Una piacevole consolazione.

Un consiglio a chi vuole fare questo mestiere.

Frequentare corsi di scrittura, leggere, accertarsi di avere qualcosa da raccontare, e soprattutto non tirarsela nel tentativo di diventare personaggio. L’artista scontroso e intrattabile non va più di moda.

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Le selfie-interviste di Eleonora Buratti

Che siate appassionati del vostro lavoro o semplici mestieranti, questo è il luogo per parlarne.

Un blog dedicato a tutte le professioni, da quelle artistiche a quelle tecniche. Uno spazio per raccontare l’impegno e quella soddisfazione che solo la fatica è in grado di restituire. Storie di colonnelli e di impiegati, di musicisti e di fiorai. Storie di scrittori e di registi, di becchini e palombari.

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